TI CHIEDO
racconto di fantascienza di Marco Lisi
racconto di fantascienza di Marco Lisi
“(…) Ho accresciuto milioni di volte la vista che mi desti, e l’udito che mi desti, milioni di volte; (…)”
Penetrare attraverso la membrana cellulare era stato semplice, un gioco da ragazzi. Adesso si muoveva con cautela nel citoplasma, immenso oceano liquido, denso e lattiginoso, popolato di sparsi continenti. Raggiunse il più grande di essi e si fermò ad esaminarlo con cura. Il nucleo del neurone appariva integro e perfettamente funzionante. Penetrò al suo interno e con uno sforzo di concentrazione si mise a controllare l’interminabile doppia spirale del DNA, in tutta la sua maestosa, policroma bellezza. Rassicurato, uscì dal nucleo e si diresse senza ulteriori indugi verso il lato opposto della cellula neuronale, lì dove avrebbe trovato la sinapsi difettosa.
Sapeva adesso che non si trattava di un problema genetico: gli restava ormai solo da districarsi nel labirinto del dendrite, individuare la sinapsi avariata e completare la riparazione.
Come il delta di un grande fiume, il dendrite si ramificava in centinaia di rami secondari ed ognuno di essi in decine di altri ancora. Gli venne in mente, per analogia, l’albero genealogico di una grande famiglia regnante dei tempi antichi, della quale non ricordava più nemmeno il nome.
Scelse con sicurezza la via da prendere ad ogni diramazione e giunse velocemente al suo obiettivo. Come aveva previsto, la causa di tutto doveva essere stato un trauma meccanico: la parete mielinica in prossimità della sinapsi appariva danneggiata in più punti, attraverso i quali, come da un tubo che perde, il potenziale elettrochimico si disperdeva in mille rivoli e non riusciva a raggiungere il livello necessario ad eccitare la connessione sinaptica con i neuroni circostanti.
Uno stupido, insignificante problema idraulico che avrebbe però potuto causare la morte di un essere umano, si fermò a pensare.
Sentì avvicinarsi in un crescendo di sensazioni il momento cruciale; inebriato della sua onnipotenza, espanse i suoi sensi, concentrò la sua volontà ed in un unico, irripetibile istante scaricò tutti i suoi poteri, come in un orgasmo.
Rimase per un po’ (secondi, millisecondi ?) ad osservare come istupidito il risultato del suo intervento, poi si riscosse e, perfettamente all’erta, si concentrò sui termini della successiva missione.
“(…) ho valicato lo spazio con la parola,
e preso dall’aria il fuoco per farne luce. (…)”
Con la velocità del pensiero si allontanò dalla sinapsi, dal neurone, da quel cervello ormai perfettamente funzionante, e si diresse vertiginosamente verso l’orbita di Saturno, dove una cometa di medie dimensioni sembrava aver perso la sua strada e rischiava di entrare in rotta di collisione con una delle stazioni spaziali di rifornimento sparse sul piano dell’eclittica ed esterne alla fascia degli asteroidi.
Con una piccola operazione di chirurgia interplanetaria, avrebbe potuto deviare la rotta della cometa e portarla in rotta di collisione con il Sole dove, in un grande sbuffo di vapore, avrebbe finito di creare problemi.
L’annuncio gli risuonò nella mente, mentre era ancora perso nelle sue riflessioni: “Attenzione, cinque minuti alla fine del secondo turno. Tutti gli operatori sono pregati di iniziare le operazioni di log-out”.
Mario Rossi, programmatore di quarta classe di una delle più grandi multinazionali informatiche del mondo (familiarmente e per antonomasia definita “The Corporation”), terminò a malincuore la procedura di disconnessione, si liberò con un gesto oramai familiare del connettore cerebrale posto alla base della sua nuca ed uscì dall’imbracatura che gli permetteva di espletare tutte le sue funzioni biologiche durante il turno di lavoro (il tempo macchina era prezioso e non poteva essere sprecato!).
Con indosso la sua tuta marrone, che designava la sua appartenenza alla quarta classe dell’OdP (Ordine dei Programmatori), si diresse verso l’uscita, ancora perso negli scenari di’incomparabile maestà e bellezza attraverso i quali aveva appena “navigato”. Intorno a lui, programmatori di varie classi si muovevano con la stessa aria assorta e vagamente depressa.
Giunto alla locale stazione sotterranea della metropolitana, salì insieme ad altri sulla vettura a levitazione magnetica che lo avrebbe portato a destinazione in pochi minuti.
Vicino a lui, due programmatori di prima classe, nelle loro immacolate tute bianche, parlottavano amichevolmente tra loro, degnandolo di tanto in tanto di uno sguardo sufficiente ed altezzoso.
Non dovevano navigare nella realtà virtuale, loro. In quanto appartenenti alla prima classe, si dovevano dedicare solo all’amministrazione statale: niente “viaggi” in scenari fantastici e mozzafiato, solo interminabili liste di dati statistici, conti economici, bilanci.
Come spesso negli ultimi tempi, lo prese un senso inesprimibile d’insoddisfazione, di depressione, di vuoto esistenziale.
Seguendo chissà quale associazione di pensieri, gli vennero alla mente i versi di una vecchia poesia, trovata per caso in un sito sulla letteratura americana arcaica del ventesimo secolo. L’autore, se ben ricordava, un certo Edgar Lee Masters:
“(…) e ti chiedo:
ti piacerebbe creare un sole
e l’indomani avere i vermi
che ti brulicano in mezzo alle dita?”
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