Un doveroso ringraziamento ai nostri "ispiratori"

Si sente a volte la necessità (direi quasi il dovere) di condividere le proprie esperienze, conoscenze e passioni.
Nell'ambito della scienza e della tecnica si è sempre ben consci della propria ignoranza, ma si avverte al tempo stesso l'importanza di comunicare quanto si conosce agli altri, soprattutto ai più giovani e meno esperti.
La cosa più importante poi non risiede in quelle poche schegge di esperienza che si riescono a condividere, quanto nella passione che ci ha permesso di acquisirle.
Trasmettere una scintilla di quella passione è tanto difficile quanto fondamentale.
Ognuno di noi ha avuto uno o più ispiratori che ci hanno istradato lungo il cammino di un "hobby" o di una professione.
Io dovrei ricordare l'amico conosciuto al mare che mi disegnò su un foglio di carta da lettera (che ancora conservo) lo schema e le istruzioni per costruire la mia prima radio "a galena" (in realtà utilizzava un bel diodo al germanio OA81 che ancora conservo gelosamente) e tanti, tanti altri, amici, conoscenti e colleghi, che hanno segnato la mia vita fornendomi idee ed ispirazione.

Non posso tuttavia non menzionare particolarmente un signore che, pur non avendolo io mai incontrato, ha influenzato più di tutti la mia vita e che rimane tuttora un riferimento ed un modello ideali: Guglielmo Marconi.

Guglielmo Marconi, padre della radio e primo radioamatore

Guglielmo Marconi, padre della radio e primo radioamatore

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martedì 25 agosto 2009

Il film muto di Fritz Lang che ispiro' von Braun





E' considerato il primo "serio" film di fantascienza ed ha di sicuro ispirato Wenher von Braun durante tutte le sue ricerche, fino allo sbarco dell'uomo sulla Luna.


Il film muto "Frau Im Mond" ("Donna sulla Luna") fu girato nel 1929 dal geniale regista tedesco Fritz Lang (lo stesso dell'altro capolavoro, "Metropolis"), con la consulenza di Hermann Oberth, uno dei padri della missilistica e dell'astronautica, che fu proprio il maestro (poi capo e collaboratore) di von Braun.


Il film introdusse per la prima volta l'idea del "conto alla rovescia"("count-down") durante il lancio di un razzo. L'idea, introdotta per creare la necessaria atmosfera drammatica al momento del lancio, fu poi adottata nella realta' e fa ormai parte dell'immaginario collettivo legato alle imprese spaziali.
Il film prospettava inoltre per la prima volta l'utilizzo di propellente liquido ed il concetto di razzo a due stadi. Mostrava poi con sufficiente realismo gli effetti dell' assenza di gravita' a bordo di una navicella spaziale.


domenica 12 aprile 2009

LE ANTENNE A BORDO DEI SATELLITI


Le antenne per la ricezione delle trasmissioni televisive trasmesse da satellite stanno diventando sempre più popolari e diffuse, facendo bella mostra di sé sui balconi ed i tetti delle nostre abitazioni. Anche il loro costo è diventato molto “popolare”, tanto che una “parabola” di diametro inferiore al metro, completa di illuminatore (“feed”), amplificatore a bassa cifra di rumore e meccanica di montaggio può essere facilmente acquistata per poche decine di euro.
La diffusione della televisione satellitare ha così il merito di aver reso familiare a molti la tecnologia delle antenne a riflettore, che tanto banale poi non è, visto che opera a più di 10 GHz (banda Ku).
Ma se le antenne satellitari di terra sono più o meno familiari a tutti, tanto da fare ormai parte della lista dei nostri elettrodomestici, molto meno note sono le loro parenti nobili, cioè le antenne montate a bordo dei satelliti, che pure ad esse in qualche modo assomigliano.
Il presente articolo si propone pertanto di fornire una panoramica delle antenne dei satelliti, anche dette antenne “di bordo”, descrivendone in termini semplici le configurazioni, le caratteristiche e le tecnologie.


Alcuni concetti di base: guadagno direttivo e principio di reciprocità

Prima di addentrarci nel complesso mondo delle antenne di bordo, varrà la pena di chiarire alcuni concetti di base sulle antenne in genere.
Cominciamo con la definizione, spesso fraintesa, di guadagno d’antenna, dissipando un dubbio molto diffuso: il guadagno di un’antenna è qualcosa di fondamentalmente diverso dal guadagno di un amplificatore.
In un amplificatore (audio o RF che sia) si converte la potenza in continua, fornita da un alimentatore, in potenza del segnale d’uscita. Dovendosi come sempre rispettare la legge di conservazione dell’energia, questa conversione avviene con efficienza inferiore al 100 per cento.
In un’antenna, che è un componente notoriamente passivo (ci sono anche antenne cosiddette “attive”, ma per il momento non facciamo confusione), non si ha alcuna conversione di potenza in continua fornita da un alimentatore e sembrerebbe quindi che parlare di guadagno equivalga ad ammettere la creazione di potenza, negata dalle leggi della fisica.
In realtà il guadagno di un’antenna (sarebbe più corretto parlare di “direttività” o di “guadagno direttivo”) non si riferisce ad alcun processo di conversione, ma piuttosto alla capacità dell’antenna di concentrare in una specifica direzione la potenza da essa irradiata.
Si fa anzi riferimento alla definizione di antenna isotropica (parola quest’ultima derivante dal greco antico), cioè di un’antenna che irradia in modo uniforme in tutte le direzioni ed il cui guadagno è per definizione uguale a 1 (cioè zero dB); il guadagno direttivo di un’antenna o guadagno rispetto all’isotropica, è quindi, come già spiegato, una misura della capacità dell’antenna di concentrare la potenza irradiata, riferita al caso ideale in cui l’antenna irradia uniformemente in tutte le direzioni.
Si è parlato di caso ideale perché in realtà l’antenna isotropica è un concetto essenzialmente matematico, difficilmente realizzabile in pratica.
Volendoci aiutare con un paragone, potremmo immaginare l’antenna isotropica come una lampadina che, appesa ad un filo al centro di una stanza, illumina in modo uniforme tutte le pareti; l’antenna direttiva per contro è come una torcia elettrica che generi un pennello di luce ad alta intensità, in grado di illuminare aree piccole ma molto distanti.
Il guadagno direttivo di un’antenna viene espresso normalmente in dBi (dove la lettera “i” ricorda appunto il confronto rispetto all’antenna isotropica) ed è calcolato attraverso la formula seguente:


G = (4 x pigreco x Aequ.) / l^2


dove pigreco è il buon vecchio 3,14 di scolastica memoria, l (lambda) è la lunghezza d’onda del segnale radio e Aequ. è l’area equivalente dell’antenna (Nota Bene: per avere il guadagno in dBi bisogna fare il logaritmo in base 10 di G e moltiplicare per 10).
Il concetto di area equivalente di un’antenna non è di immediata comprensione, soprattutto se riferito ad antenne che non hanno un’area fisica propriamente definita (si pensi a tutte le antenne filari, ai dipoli o alle Yagi). Semplificando un poco le cose, si potrebbe dire che l’area equivalente di un’antenna è l’area fisica che dovrebbe avere un’antenna a riflettore per fornire un guadagno uguale a quello dell’antenna considerata.
In conclusione, il guadagno è una misura dell’abilità dell’antenna di focalizzare le onde radio in una particolare direzione. Per un’antenna a bordo di un satellite, le onde radio dovrebbero essere dirette in modo tale da “coprire” una particolare area geografica (una nazione o un gruppo di nazioni).
Il principio di reciprocità, di fondamentale importanza nella teoria e nella pratica delle antenne, afferma semplicemente che le caratteristiche di un’antenna passiva (cioè priva di componenti attivi in essa integrati, quali amplificatori di potenza o a bassa cifra di rumore) sono le stesse sia che l’antenna stessa funzioni come ricevente che come trasmittente. Questo principio permette, ad esempio, di progettare le antenne come trasmittenti e di misurarle invece in modalità ricevente, indipendentemente dall’effettivo utilizzo che esse avranno a bordo del satellite.


La polarizzazione e la “cross”-polarizzazione di un’antenna

Il campo elettrico, E, e quello magnetico, H, generati ad una certa distanza da un’antenna trasmittente (per il principio di reciprocità, le stesse considerazioni si applicano ad un’antenna ricevente), sono ortogonali fra loro e si propagano nella direzione dell’onda elettromagnetica.



Nel caso di polarizzazione lineare, i due vettori si propagano senza ruotare e si parla di Polarizzazione Verticale “V” o di polarizzazione Orizzontale “H” (H sta per Horizontal), a seconda della direzione assunta dal campo elettrico E.
Nel caso invece di polarizzazione circolare, i due vettori, E ed H, ruotano intorno all’asse di propagazione dell’onda; a seconda del senso di rotazione, si parla di polarizzazione circolare destra (“RHCP”, cioè Right Hand Circular Polarization) o sinistra (“LHCP”, Left Hand Circular Polarization).Come nel caso della polarizzazione lineare, anche le polarizzazioni circolari destra e sinistra sono in qualche modo ortogonali, nel senso che possono coesistere senza influenzarsi a vicenda.



A bordo dei satelliti, si usa spesso la stessa antenna per ricevere in una polarizzazione (lineare o circolare) e per trasmettere in quella ortogonale.
Quanto detto finora si applica ad un’antenna ideale. Nella pratica, un’antenna non è in grado di discriminare in modo perfetto fra polarizzazioni ortogonali: ad esempio, ricevendo con un’antenna prevista per la polarizzazione verticale, si viene in realtà disturbati da un segnale alla stessa frequenza in polarizzazione orizzontale. Tale fenomeno viene misurato da un parametro dell’antenna chiamato “polarizzazione incrociata” (“Cross-Polarization”).


Diagrammi di radiazione ed aree di copertura

Il diagramma (“pattern”) di radiazione è una rappresentazione grafica del campo elettrico relativo trasmesso o ricevuto da un’antenna. I diagrammi di radiazione si riferiscono ad una frequenza e ad una polarizzazione. Anche se in teoria essi dovrebbero essere rappresentati da grafici tridimensionali, nella pratica si preferisce lavorare con grafici bidimensionali riferiti ad uno specifico piano (o “taglio”), che vengono presentati in forma polare o rettangolare, con la scala dell’intensità espressa in dB. I diagrammi sono normalizzati rispetto al valore massimo (cioè alla direttività o guadagno direttivo dell’antenna), che viene convenzionalmente posto uguale a zero dB.

L’area della Terra che il satellite può “vedere” (o meglio, raggiungere con le sue antenne) è chiamata “area di copertura” (“satellite footprint”). L’area di copertura può anche essere descritta come l’intersezione del diagramma di trasmissione dell’antenna di bordo con la superficie della Terra. Si possono a questo punto tracciare le cosiddette linee isoguadagno, ovvero linee che congiungono i punti della Terra verso i quali l’antenna trasmette (o riceve) con lo stesso guadagno. Molto spesso (soprattutto nel caso di satelliti per broadcasting televisivo) invece del guadagno si riporta sull’area di copertura la EIRP (“Effective Isotropic Radiated Power”), espressa in dBW, che è pari al valore in dB del prodotto fra il guadagno direttivo e la potenza del trasmettitore in watt (cioè alla somma del guadagno d’antenna in dBi e della potenza trasmessa in dBW).




Si parla di copertura “globale” quando il diagramma di radiazione dell’antenna di bordo copre la più larga porzione della Terra che può essere vista dal satellite. Per un satellite geostazionario, tale porzione è pari ad un terzo della superficie terrestre (sono infatti necessari almeno tre satelliti geostazionari per coprire tutta la Terra); la larghezza del fascio per una copertura globale è di circa 17,4 gradi.




Una copertura regionale è quella che illumina solo una specifica zona sulla superficie della Terra (un continente o un gruppo di stati). L’area illuminata può avere un contorno semplice, quale un cerchio od un ellisse, ovvero può cercare di seguire il contorno della regione geografica servita dal satellite, allo scopo di massimizzare il guadagno. Si parla in quest’ultimo caso di copertura contornata (“shaped”).
Si parla infine di copertura a “spot” (“spot beam coverage”) quando l’area illuminata dall’antenna è molto più piccola della copertura globale, con larghezze del fascio inferiori ai due gradi. I fasci “spot” hanno il vantaggio di concentrare l’energia dell’antenna su una piccola area e quindi (per la definizione di guadagno direttivo) forniscono un alto guadagno. Lo svantaggio consiste nel dover coprire una certa area geografica con un numero elevato di fasci (copertura multifascio, “multibeam coverage”) e nel dover provvedere all’interconnessione fra utenti eventualmente presenti in fasci differenti.


Si può stabilire una relazione fissa fra il guadagno direttivo di un’antenna e l’area di copertura, detta “prodotto area-guadagno”. Questo prodotto è una costante, in quanto ad una maggiore area di copertura (larghezza del fascio d’antenna) corrisponde un guadagno direttivo più basso, e viceversa.

Anatomia di un’antenna satellitare


A bordo dei satelliti vengono utilizzate antenne di vario tipo e tecnologia, a seconda dell’applicazione specifica e della frequenza di operazione.Per realizzare coperture regionali o “a spot” si utilizzano generalmente antenne a riflettore. In questo caso, i due principali elementi di un’antenna satellitare sono il riflettore e l’illuminatore (“feed”). Il riflettore può essere costituito da una superficie solida ovvero da una rete metallica (abbastanza fitta da apparire come “solida” alle onde elettromagnetiche). Il riflettore ha un contorno generalmente circolare o ellittico e la sua superficie tridimensionale fa parte di una superficie parabolica. Questo è il motivo per il quale si parla comunemente di antenne paraboliche o, più familiarmente, di “parabole”.

Nell’ambito delle antenne a riflettore, si possono adottare numerose configurazioni, tipicamente basate sull’utilizzo di uno o più sottoriflettori, cioè riflettori di dimensioni inferiori a quelle del riflettore principale, posti fra questo e l’illuminatore. Queste configurazioni “dual reflector” (le più importanti sono quella cosiddetta “Cassegrain” e quella cosiddetta “Gregorian”) rispondono sia ad esigenze di prestazione elettromagnetica che alla necessità di adattare la geometria dell’antenna alla configurazione meccanica del satellite.

L’illuminatore è quasi sempre costituito da un’antenna “a tromba” (“horn”), posta nel fuoco del riflettore parabolico.

Per ottenere coperture d’antenna “contornate”, si utilizzano illuminatori multipli, opportunamente alimentati dal segnale RF, oppure si modifica la superficie parabolica del riflettore in modo da “distorcere” il fascio dell’antenna (“shaped reflector antenna”).
Le antenne a tromba vengono utilizzate senza l’ausilio di un riflettore quando si vogliono realizzare fasci molto ampi (ad esempio, per coperture globali).Negli ultimi anni si sono diffuse anche a bordo dei satelliti le antenne a “phased-array” (in italiano si dovrebbe dire “a cortina di elementi fasati”).

Queste antenne si basano sul principio che alimentando un certo numero di elementi radianti semplici (ad esempio dipoli, trombe o antenne a microstriscia), con uno stesso segnale RF al quale, per ciascun elemento radiante, sono state opportunamente variate l’ampiezza e la fase, è possibile creare un fascio sagomato e puntarlo in una qualunque direzione dello spazio.
Il guadagno di un’antenna “phased-array” è, in prima approssimazione, pari a N volte il guadagno del singolo elemento radiante (N essendo il numero totale di elementi dell’antenna). Esprimendo il guadagno in dBi, si può scrivere:


GPhased-Array (dBi) = GSingolo Elemento (dBi) + 10 x log10 N


Una delle più recenti frontiere nel campo delle antenne satellitari è costituita dalle antenne dispiegabili di grandi dimensioni (“large deployable reflector antennas”. Si tratta di antenne i cui riflettori possono raggiungere un diametro di 18 metri. Tali riflettori, anche detti “ad ombrello”, si aprono in orbita attraverso un’intelaiatura snodabile; la loro superficie non è ovviamente rigida, bensì costituita da una specie di leggero “tessuto” di fili metallici dorati.

Antenne “ad ombrello” di grandi dimensioni sono già state utilizzate con successo in un certo numero di sistemi satellitari, tipicamente per comunicazioni verso utenti mobili in banda L (1,5 – 1,6 GHz), come i satelliti Thuraya ed Inmarsat 4.

venerdì 13 febbraio 2009

Lo storico brevetto "7777"

Ricevo e pubblico con molto piacere dal mio carissimo amico Giuseppe Grelli le immagini dello storico brevetto "7777" di Marconi, con il quale rivendicava l'invenzione del "circuito sintonico", cioè del circuito di sintonia a induttanza e capacità variabili così come lo conosciamo tuttora.
Pochi dei non addetti ai lavori sanno che i primi trasmettitori a scintilla trasmettevano su bande larghissime (lo spettro di una scarica elettrica in aria), l'unico elemento di sintonia, a bassissimo Q, essendo costituito dal circuito risonante antenna-terra.
La radio così come la conosciamo oggi, con un manopola di sintonia che permette di selezionare un numero elevato (ma non infinito) di stazioni, sulla base della loro frequenza di trasmissione, la dobbiamo a questa invenzione di Marconi, che per certi aspetti è quasi più importante della stessa telegrafia senza fili.
Il brevetto porta la data del 26 aprile 1900. Di lì a nove anni, Marconi avrebbe conseguito il premio Nobel per la Fisica per le sue rivoluzionarie invenzioni. E proprio quest'anno, 2009, cade il primo centenario di questo illustre riconoscimento.



sabato 7 febbraio 2009

Le orbite dei satelliti

I satelliti artificiali possono operare su differenti tipi di orbite (figura 1). Il tipo di orbita utilizzato dipende prima di tutto dalla missione del satellite. L’orbita più diffusa tra i satelliti per telecomunicazioni commerciali è quella geostazionaria, anche se recentemente si sono diffuse costellazioni di satelliti in orbita LEO (sistemi Iridium e Globalstar) ed inclinata (sistema ICO). I satelliti per l’osservazione terrestre e meteorologici utilizzano orbite geostazionarie e polari, più raramente quelle inclinate. Molti altre orbite sono possibili, come ad esempio le orbite Molniya, comunemente utilizzate dai satelliti russi.
Orbite geostazionarie

Cinquantasei anni fa, nel numero di ottobre 1945, la rivista inglese “Wireless World” pubblicò un articolo con un titolo alquanto visionario: « Extraterrestrial Relays» (cioè, “ponti radio extraterrestri”). L’autore era un giovane tenente di 28 anni della British Royal Air Force (la mitica RAF), Arthur C. Clarke, che aveva peraltro lavorato durante la Seconda Guerra Mondiale allo sviluppo di sistemi radar (figura 2).
Nel suo articolo, Clarke prospettava l’utilizzo di satelliti artificiali ad una quota tale da ruotare in modo sincrono con la rotazione terrestre per essere utilizzati come “ponti radio” nello spazio (figura 3).

Una costellazione composta da un minimo di tre satelliti di questo tipo avrebbe addirittura garantito le comunicazioni su tutta la superficie terrestre.
Arthur C. Clarke è divenuto in seguito un famosissimo scrittore di romanzi di fantascienza (è famoso, fra l’altro, per aver ispirato con un suo racconto il celeberrimo film “2001: odissea nello spazio” di Stanley Kubrick). Ha tuttavia dichiarato molte volte di essersi pentito per aver svenduto un’idea che si sarebbe sviluppata in un affare da molte migliaia di miliardi l’anno e che, se brevettata, lo avrebbe probabilmente reso l’uomo più ricco del mondo.
L’orbita geostazionaria è quella nella quale il satellite è sempre nella stessa posizione rispetto alla Terra che ruota su se stessa. Il satellite viaggia su un’orbita circolare ad un’altezza di circa 35790 chilometri, alla quale corrisponde un periodo orbitale (cioè il tempo necessario a percorrere un’orbita completa) uguale al periodo di rotazione della Terra su se stessa (che è di 23 ore, 56 minuti e 4,09 secondi). Ruotando con la stessa velocità angolare e nello stesso senso di rotazione della Terra, il satellite appare stazionario (cioè sincrono rispetto alla rotazione della Terra) (figura 4).

Figura 4: l'orbita geostazionaria è geosincrona

I satelliti geostazionari sono particolarmente utili nelle telecomunicazioni, in particolare quelle verso utenti fissi (comunicazioni punto-punto, broadcasting televisivo), perché permettono l’utilizzo di antenne semplici, che non richiedono un ripuntamento continuo verso il satellite (quali sono tutte le parabole televisive ormai tanto diffuse anche nel nostro paese).
Poiché un’orbita geostazionaria, per essere tale, deve giacere nello stesso piano al quale appartiene l’Equatore, ne risulta che il satellite sarà visto allo zenith di stazioni situate nelle zone equatoriali e tropicali, con angoli di elevazione sempre più bassi mano a mano che ci avvicina ai poli. Nelle zone polari e subpolari un satellite geostazionario è in realtà irricevibile, in quanto un’eventuale antenna di terra dovrebbe essere puntata sotto la linea dell’orizzonte.
Orbite geostazionarie vengono anche utilizzate da satelliti per l’osservazione terrestre, in particolare quelli meteorologici. Questo perché a 36000 chilometri di distanza si ha una vista d’insieme di circa un terzo della superficie terrestre (oceani e terre emerse), utile per determinare l’evoluzione di cicloni, uragani ed altri grandi fenomeni atmosferici. Un esempio molto noto di satellite meteorologico geostazionario è costituito dal satellite Meteosat, quello che ci fornisce le belle immagini commentate durante i telegiornali al momento delle previsioni del tempo. Il satellite Meteosat, costruito in una numerosa serie di esemplari, è stato progettato e realizzato da un team di industrie europee coordinato dall’ ESA (European Space Agency), tra le quali l’industria spaziale italiana ha un ruolo primario (essendo responsabile, fra l’altro, di tutte le antenne del satellite).
Abbiamo già accennato alle positive caratteristiche dell’orbita geostazionaria. Dalla sua quota di 36000 chilometri (pari a circa 6 volte il raggio terrestre) un satellite geostazionario vede circa un terzo della superficie terrestre (da circa 75 gradi di latitudine Sud a circa 75 gradi di latitudine Nord).
Come teoricamente predetto da Arthur Clarke, è quindi possibile con un minimo di 3 satelliti geostazionari spaziati di circa 120 gradi offrire un servizio di telecomunicazione praticamente globale. La cosiddetta costellazione geostazionaria ha costituito la fortuna dell’organizzazione internazionale Intelsat (recentemente privatizzata), che ha dominata la scena delle telecomunicazioni commerciali negli ultimi quaranta anni.
Anche l’orbita geostazionaria presenta tuttavia alcuni svantaggi. Innanzi tutto, a causa dell’elevata distanza dalla superficie terrestre, il costo del lancio è per un satellite geostazionario molto elevato e richiede lanciatori di alta classe (quale il razzo multistadio europeo Arianne).
Sempre l’elevata distanza comporta un notevole ritardo di propagazione delle onde radio (circa 0,12 secondi per singola tratta), che è al limite dell’accettabilità durante una conversazione telefonica. Il ritardo di propagazione cessa di essere un problema nel caso di diffusione (broadcasting) televisiva, come dimostrato dal successo mondiale della televisione via satellite.

Orbite polari

Rispetto a quelli geostazionari, i satelliti in orbita polare offrono una vista più globale della Terra (permettono infatti anche l’osservazione delle zone polari) e vengono quindi impiegati soprattutto in missioni di telerilevamento e sorveglianza. Un satellite polare segue un’orbita con un’inclinazione di quasi 90 gradi rispetto all’Equatore, ad un’altezza compresa fra i 700 e gli 800 chilometri (figura 5).

Mentre il satellite si muove da Nord a Sud lungo la sua orbita, la Terra si muove essa stessa ruotando da Ovest verso Est. Il risultato è che il satellite riesce poco a poco a scandire tutta la superficie terrestre, come se stesse sbucciando un’arancia (figura 6).

Le orbite polari sono generalmente eliosincrone (“sun-synchronous”) cioè tali che il satellite sorvoli una stessa località alla stessa ora solare ogni giorno, durante tutte le stagioni dell’anno. Questa caratteristica è molto importante nelle missioni di osservazione della superficie terrestre, perché permette di raccogliere dati scientifici nelle stesse condizioni e di confrontarli in modo consistente su lunghi periodi di tempo.

Orbite LEO (“Low Earth Orbit”)

Quando un satellite orbita intorno alla Terra ad un’altezza inferiore ai 2000 chilometri, si dice che è in un’orbita bassa (“Low Earth Orbit”). Tipicamente i satelliti LEO si trovano ad altezze variabili fra i 300 e gli 800 chilometri. Al di sotto dei 300 chilometri, comincerebbe a farsi sentire l’attrito con l’atmosfera, seppure estremamente rarefatta a quelle quote, e come conseguenza il satellite verrebbe ad essere progressivamente rallentato ed a perdere quota, fino a disintegrarsi nell’impatto con gli strati più densi dell’atmosfera.
Come definito dalle leggi di Keplero, i satelliti LEO, orbitando molto vicini alla Terra, viaggiano a velocità molto elevate (circa 30000 chilometri all’ora) e compiono un giro completo intorno al pianeta in circa 90 minuti.
Rispetto ai satelliti geostazionari, i satelliti LEO hanno il grande vantaggio di sorvolare la superficie terrestre a bassa quota; ciò li rende ideali per missioni di telerilevamento (“Remote Sensing”) e di sorveglianza militare. Il costo del lancio è inoltre molto più contenuto. Nelle applicazioni per telecomunicazione, pesa a favore dei LEO la ridotta distanza dalla stazione terrestre (ricordiamo che l’attenuazione delle onde radio è inversamente proporzionale al quadrato della distanza): ciò permette collegamenti radio con potenze molto ridotte ed antenne relativamente semplici; si comprende quindi il motivo per il quale l’orbita LEO sia così diffusa tra i satelliti radioamatoriali.
Anche gli svantaggi dell’orbita LEO sono però numerosi. Innanzitutto, un satellite LEO è visibile ad una stazione terrestre solo per pochi minuti (il raggio dell’area di visibilità varia fra i 3000 e i 4000 chilometri), durante i quali si muove velocissimo da una parte all’altra dell’orizzonte. L’antenna di terra deve quindi essere continuamente ripuntata verso di esso, pena la perdita del collegamento. Sempre a causa dell’alta velocità di rotazione, il collegamento radio con un satellite LEO è affetto da un fortissimo effetto Doppler (variazione della frequenza di ricezione in funzione della velocità relativa fra satellite e stazione), che deve essere compensato in qualche modo (manualmente, con tecniche di inseguimento automatico della portante o attraverso una compensazione basata sulla conoscenza accurata dell’orbita).
L’utilizzo dei satelliti LEO nell’ambito delle telecomunicazioni è stato per molto tempo limitato ad applicazioni nelle quali si potevano accettare i lunghi periodi durante i quali il satellite non è in vista. Negli ultimi anni si è diffuso un approccio alternativo, basato sull’aumento di visibilità che si ottiene mettendo in orbita più satelliti ed utilizzando differenti piani orbitali. Costellazioni di satelliti LEO sono state utilizzate per fornire servizi di telefonia mobile con una copertura globale della Terra (fra i più noti, i sistemi Globalstar ed Iridium).

Orbite MEO (“Medium Earth Orbits”)

Le orbite MEO sono orbite circolari ad un’altezza di circa 10000 chilometri. Il loro periodo orbitale è di circa 6 ore. Il tempo massimo durante il quale un satellite in orbita MEO è al di sopra dell’orizzonte locale per un osservatore sulla superficie terrestre è dell’ordine di alcune ore. Una costellazione di satelliti MEO in grado di fornire una copertura globale richiede un numero ridotto di satelliti (da 10 a 12), disposti su due o tre piani orbitali.
Il sistema MEO più famoso è il Global Positioning System (GPS) del Dipartimento della Difesa degli Stati Uniti, sistema di radio-navigazione che permette ad utenti ovunque situati di determinare con altissima precisione posizione, velocità e tempo assoluto (figura 7).

Orbite HEO (“Highly Elliptical Orbits”)

Le orbite HEO, cioè orbite altamente ellittiche, furono inizialmente utilizzate dai Russi per fornire servizi di telecomunicazione nelle regioni sub-polari, altrimenti non raggiungibili con satelliti geostazionari. I satelliti HEO hanno un perigeo (punto dell’orbita più vicino alla Terra) a circa 500 chilometri d’altezza ed un apogeo (punto dell’orbita più lontano dalla Terra) che raggiunge i 50000 chilometri. Le orbite sono quindi marcatamente ellittiche, inclinate di 63,4 gradi rispetto all’Equatore. A causa dell’alta eccentricità dell’orbita, il satellite si troverà per circa due terzi del periodo orbitale in prossimità dell’apogeo, e durante questo periodo sembrerà praticamente stazionario ad un osservatore sulla Terra. Posizionando l’apogeo dell’orbita in modo appropriato, si può quindi riuscire a far corrispondere la copertura del satellite con l’area d’interesse. Il sistema russo Molniya è ad esempio progettato per coprire la Siberia. E’ evidente che per garantire la continuità del servizio quando il satellite è al perigeo, si devono prevedere più satelliti, opportunamente spaziati, che viaggiano sulla stessa orbita, in modo tale che almeno uno di essi sia sempre in prossimità dell’apogeo. Le orbite HEO soffrono in qualche modo sia degli svantaggi delle orbite GEO che di quelli delle orbite LEO. Come nei satelliti geostazionari, la grande distanza fra satellite e Terra pesa sul ritardo di propagazione e sulla potenza RF necessaria al collegamento. Analogamente ai satelliti LEO, anche i collegamenti radio con satelliti HEO sono affetti da un non trascurabile effetto Doppler.

martedì 3 febbraio 2009

Misurare la lunghezza di un cavo coassiale con un multimetro digitale


Navigando su Internet con occhio vigile si ha spesso l’occasione di cogliere idee e spunti veramente interessanti. A me è successo ad esempio d’imbattermi nella pubblicità di un multimetro digitale per misure su linee telefoniche, nella quale si descriveva l’uso della funzione capacimetro per determinare la lunghezza del tratto di linea, specificatamente una “twisted pair”, cioè il classico doppino telefonico (rif. 1).
La cosa mi ha subito interessato e, con l’aiuto di un motore di ricerca, ho approfondito l’argomento. Ho trovato numerosi altri riferimenti a misure analoghe ed in particolare un breve articolo di un ingegnere dell’Agilent Technologies (una volta si chiamava Hewlett-Packard) che spiegava l’arcano con poche, semplici argomentazioni (rif. 2).
Ho deciso a questo punto di diffondere anch’io la piccola, ma interessante novella, anche perché mi dava l’occasione di trattare alcuni aspetti teorici basilari sulle linee di trasmissione.
A proposito di linee di trasmissione, bisogna innanzitutto dire che di esse ne esistono due famiglie fondamentali: alla prima appartengono le guide d’onda, alla seconda i cavi coassiali (linee TEM).
Le differenze fra queste due famiglie sono fondamentali e coinvolgono il comportamento del campo elettromagnetico e la modalità di trasmissione dell’onda elettromagnetica. Senza però dover risolvere le equazioni di Maxwell, è possibile fare riferimento ad una caratteristica peculiare che ci permette quasi a vista d’occhio di distinguere una linea di trasmissione da un’altra e di predirne alcuni comportamenti fondamentali.
Si dà infatti il caso che tutte le linee di trasmissione appartenenti alla famiglia delle giude d’onda abbiano un comportamento in frequenza di tipo passa-alto, cioè trasmettono bene l’onda al di sopra di una certa frequenza (detta frequenza di taglio o di “cut-off”), mentre sono dei circuiti praticamente aperti a frequenze inferiori ad essa.
I cavi coassiali e tutte le linee di trasmissione ad essi simili hanno invece un comportamento di tipo passa-basso, cioè trasmettono bene onde a frequenze basse (incluse quelle a frequenza zero, cioè la continua o DC), mentre all’aumentare della frequenza la loro attenuazione cresce, fino a diventare infinita.
Detto in termini ancora più semplici: con una guida d’onda non riusciremo mai a connettere una lampadina all’impianto elettrico di casa o ad una batteria; con un cavo coassiale invece sì.
La spiegazione fisica è semplice e non richiede lauree in fisica teorica. I cavi coassiali (ma anche i doppini, le microstrisce, le piattine bifilari, ecc.) hanno due conduttori distinti ed è quindi possibile connetterli ai due poli di una batteria o di un alimentatore.
La guida d’onda, invece, di conduttore ne ha uno solo: provate un po’ voi a connettere i due poli di un carico con i due poli di un alimentatore attraverso una guida!
Avendo fatto i necessari distinguo, c’è ora una caratteristica delle linee appartenenti alla famiglia dei cavi coassiali che merita la nostra attenzione, in quanto alla base del metodo di misura che mi accingo a descrivere.
Essa consiste nel fatto che la capacità per unità di lunghezza di una tale linea di trasmissione non dipende dalla frequenza, ma solo dalla sua geometria, cioè dal tipo di linea e dalle sue dimensioni.
Nel caso di un cavo coassiale, ad esempio, la formula che fornisce la capacità per unità di lunghezza è:


C [F/m] = 2*p*e/ ln (D/d)

dove:

  • C è la capacità della linea per unità di lunghezza, espressa in Farad per metro;
  • p è il buon vecchio pi greco (alias 3,14) di scolastica memoria;
    e (epsilon) è la costante dielettrica del materiale di cui è composto il coassiale;
  • ln è il simbolo di logaritmo naturale (se ce l’avete sulla vostra calcolatrice bene, altrimenti non vi preoccupate, che tanto non serve);
  • d ed D sono rispettivamente il diametro del conduttore esterno e quello del conduttore interno del coassiale (fig. 1).
Avendo la pazienza di fare un po’ di calcoli (ovvero andando a sbirciare nella tabella che vi presenterò più avanti) si ottiene che per un cavo RG-58 la capacità per unità di lunghezza è pari a 94,5 pF al metro.
Come si vede la capacità per unità di lunghezza è effettivamente indipendente dalla frequenza, ma funzione solo della geometria della linea (il rapporto b/a).
Più lungo è il cavo, maggiore la sua capacità, essendo quest’ultima direttamente proporzionale alla lunghezza complessiva. Ed essendo la capacità totale indipendente dalla frequenza, potrò misurarla con un qualunque capacimetro, non necessariamente con un costoso strumento adatto per VHF, UHF o microonde.
A questo punto ci viene in mente che anche il nostro multimetro digitale (DMM), comprato alla fiera del radioamatore per 10 euro, ha la funzione capacimetro.
Andandosi a leggere le caratteristiche tecniche, si scopre che lo strumento misura la capacità su cinque scale di misura, da 2 nF a 20 microF, con una risoluzione di 1 pF sulla portata più bassa ed un’accuratezza, sulla stessa portata, di 50 pF a fondo scala (che vi aspettavate per 10 euro?).
Questo significa che sulla portata più bassa si può misurare una lunghezza di cavo RG-58 pari a circa 21 metri, con un’accuratezza di circa mezzo metro: non male!
Sulla portata successiva, quella da 20 nF fondo scala, si potranno poi misurare cavi lunghi fino a 200 metri, con un’accuratezza però proporzionalmente inferiore (circa 5 metri).
Per poter effettuare la misura, bisogna innanzitutto essere sicuri che il cavo da misurare non sia connesso ad alcuna sorgente in continua o RF. Altra condizione essenziale affinché il metodo descritto funzioni è che l’estremità dello spezzone di cavo da misurare sia un circuito aperto. Questa condizione sembrerebbe escludere la possibilità di misurare tratti di cavo già installati e collegati ad un’antenna esterna. In realtà alla bassissima frequenza alla quale la misura viene eseguita l’impedenza dell’antenna è equiparabile molto spesso ad un circuito aperto. Conviene comunque fare delle prove e non dare nulla per scontato.
Per comodità d’uso, riporto nella Tabella 1 la capacità per unità di lunghezza di alcune delle linee di trasmissione più comunemente usate nella pratica amatoriale e radiantistica.



Un ultimo suggerimento: sperimentate! Il metodo appena descritto è stato utilizzato anche per misurare lunghi tratti di piattina bipolare, del tipo utilizzato per alimentare i diffusori acustici di un impianto hi-fi. Se non conoscete la capacità per unità di lunghezza, la potete determinare misurando la capacità totale di un tratto di lunghezza nota.

Riferimenti
1. Trend Communications, “DMM Testing: understanding advanced DMM measurements for effective local loop testing”, www.trendcomms.com
2. R. Duffy, “Measure open-circuited cables using a multimeter”, EDN, 26/9/2002 (www.edn.com)


sabato 31 gennaio 2009

Fantascienza ed uso commerciale dello spazio

Da appassionato lettore di romanzi di fantascienza (in realtà leggo un po' di tutto, ma la fantascienza è il genere che forse mi rilassa di più), sono anche un assiduo frequentatore di bancarelle di libri usati.
Recentemente ho fatto incetta di vecchi numeri di Urania (circa una sessantina), che mi basteranno, spero, almeno per un anno.
Fra questi ho appena finito di leggere "La discesa di Anansi" di Larry Niven e Stephen Barnes (Urania, 1188 del 1992). Larry Niven è per inciso l'inventore del "Ringworld", di cui vi parlerò forse in un prossimo post.
Voglio ora invece riportare l'"incipit" del romanzo:

"Il 16 ottobre 1970, il consiglio di amministrazione della Comsat dichiarò un dividendo di 12,5 centesimi per azione. Ciò equivaleva a circa un milione di dollari, e rappresentava una pietra miliare: i primi soldi guadagnati dal pubblico tramite un'impresa spaziale.
La Comsat aveva impegato poco più di sei anni per ammortizzare la spesa iniziale ed ottenere dei dividendi da quell'operazione."

A volte ci si lamenta che l'uso commerciale dello spazio stenti a decollare, ma si sta effettivamente pensando ad industrie lunari o a bordo della stazione spaziale, per produrre nuovi materiali, circuiti a semiconduttore o nuovi farmaci.
In realtà lo spazio è già un lucroso "business": basti pensare ai cospicui guadagni che aziende di telecomunicazioni come Eutelsat riescono ad ottenere ogni anno.
Mancano ancora applicazioni commerciali di tipo più propriamente manufatturiero: evidentemente non siamo stati finora abbastanza creativi.

sabato 24 gennaio 2009

Antenna a quadro per onde medie supereconomica

Durante un fine settimana (queste cose succedono sempre durante i fine settimana), Guglielmo, secondogenito dei miei quattro (sic!) figli, mi chiede di aiutarlo a costruire per la scuola un telaio di legno, del tipo di quelli utilizzati dai popoli antichi per produrre i loro rudimentali tessuti. (Guglielmo ha ora 21 anni e studia ingegneria; l'articolo risale evidentemente a qualche anno fa. NdA)
Mi armo di pazienza, oltre che di seghetto alternativo e trapano elettrico, e in una mezz’oretta ottengo una sorta di cornice di legno quadrata, di circa 40 centimetri di lato, composta di quattro tavolette di spesso compensato, unite fra loro con tasselli di legno e colla.
Dopo il primo sincero entusiasmo, la “cosa” mi rimane in bella vista su un mobile del soggiorno, monumento all’inutilità e, ad un tempo, all’amore paterno.
Un giorno la osservo con occhio furbo e malizioso: le dimensioni sono più o meno giuste, ho qualche metro di filo elettrico avanzato ed un condensatore variabile dovrei riuscire a trovarlo.
Mi viene quindi l’idea di costruire un’antenna a quadro per le onde medie e di sperimentare con essa. Una volta tanto decido di non fare complicati calcoli basati su altrettanto complicate formule e di farmi piuttosto guidare dall'intuito e dall’improvvisazione.
Lo schema elettrico dell’antenna è veramente elementare (figura 1):

Figura 1


In una prima implementazione dell’antenna (figura 2), L è costituita da dieci spire affiancate di comune filo elettrico per impianti domestici, Cv è invece un condensatore variabile ad aria saccheggiato da una vecchia radiolina onde medie degli anni ’60 (capacità massima probabilmente intorno ai 300 pF).


Figura 2

Giunge a questo punto il momento della verità: inserisco una radio onde medie economica (questa funzionante) nell’antenna a quadro, in modo tale che le spire dell’antenna siano parallele alle spire dell’antenna a ferroxube all’interno della radio (nella maggior parte dei casi, questo consisterà nel porre il lato lungo della radio perpendicolare al piano dell’antenna a quadro). Sintonizzo la radio su una frequenza della banda onde medie e ruoto il condensatore variabile dell’antenna a quadro: il primo effetto che si nota è un aumento del rumore di fondo, al quale si associa la comparsa o il notevole aumento d’intensità di segnali altrimenti appena udibili. Sfortunatamente mi rendo conto del fatto che l’escursione del condensatore variabile non mi permette di coprire completamente la banda delle onde medie: di fatto è la parte inferiore della banda a non essere coperta, come se la capacità massima del variabile non fosse sufficientemente alta. Ci vorrebbe forse un condensatore fisso in parallelo (capacità in parallelo si sommano). Detto e fatto: “pesco” dallo scatolone dei componenti alla rinfusa un bel condensatore a mica da 500 pF e lo saldo in parallelo a Cv. Ora però è la parte superiore della banda a non essere completamente coperta. Una seconda rovistata nel già menzionato scatolone e con l’aggiunta di un interruttore a levetta il circuito dell’antenna a quadro raggiunge la sua versione definitiva (figure 3 e 4):


Figura 3



Figura 4

Le prestazioni di questa antenna, che ho definito nel titolo super-economica, sono veramente sorprendenti. Esse sono soprattutto evidenti nelle ore diurne ed in associazione a ricevitori di medie o scarse prestazioni: in questi casi non sarà infrequente ricevere stazioni lontane in porzioni della banda altrimenti completamente mute.
Possiamo anche dire che con poche migliaia di lire (o meglio, pochi euro) di spesa, si possono ottenere i risultati normalmente ottenibili con ricevitori di classe e costo alquanto elevati.
A questo proposito, e visto che abbiamo finora parlato di prestazioni “super”, colgo l’occasione per parlare di un ricevitore molto famoso negli Stati Uniti fra gli appassionati del DX in Onde Medie: la GE Superadio III (per gli amici SR3) (figura 5).

Figura 5

A prima vista la GE Superadio III si presenta come un’elegante radio portatile per AM/FM (530-1705 KHz e 88-108 MHz), dotata di doppio altoparlante (un ampio woofer da 17 centimetri ed un tweeter), di antenna telescopica per la FM, di prese per antenna esterna e di un ricca dotazione di controlli (bassi, acuti, larghezza di banda, AFC).
Ma le caratteristiche che la rendono tanto famosa fra gli appassionati del DX d’oltreoceano derivano soprattutto dall’antenna a ferrite per le onde medie, lunga ben 20 centimetri, e per l’insolito numero di stadi IF (ben quattro stadi sintonizzati in AM, contro i due normalmente utilizzati). Non mi risulta che la GE Superadio III sia venduta in Italia; negli stessi Stati Uniti non è facile da trovare (anche perché continuamente richiesta dagli appassionati). Io l’ho trovata qualche anno fa in un oscuro “drugstore” californiano, pagandola circa quaranta dollari (cioè sessantacinque mila lire di allora). Un avvertimento è doveroso: al ritorno in Italia, tra dogana, IVA e dichiarazione obbligatoria d’importazione all’Ufficio Postale, ho dovuto spendere quasi quanto l’avevo originariamente pagata (alla faccia della globalizzazione !).

lunedì 19 gennaio 2009

Il collegamento radioelettrico e la propagazione ionosferica

Che cosa è il “link budget” ?
Il problema fondamentale da risolvere nella definizione di un collegamento radio è schematicamente descritto in figura 1.


Se ho un trasmettitore di potenza PT connesso ad un’antenna trasmittente con guadagno GT , ed a distanza R da questa un’antenna ricevente con guadagno GR , quale sarà la potenza PR del segnale all’ingresso del ricevitore?
Per rispondere a questa domanda sarà necessario svolgere alcuni calcoli relativamente semplici, spesso riassunti ed indicati con l’espressione inglese “link budget”, dove “link” vuol dire collegamento e “budget” è il conto della spesa.
Faremo per semplicità l’assunzione che le antenne siano a portata ottica, cioè che siano visibili l’una dall’altra, senza ostacoli naturali o edifici che si interpongano fra di esse. Questa ipotesi non è poi così limitativa, visto che si applica alla maggior parte dei collegamenti a frequenze superiori alle VHF (quindi, per esempio, ai collegamenti dei radioamatori nelle bande dei 2 metri e dei 70 centimetri) ed alla diffusione di canali televisivi da parte di un satellite geostazionario (si usano in questo caso frequenze intorno ai 12 GHz, cioè in banda Ku). Vedremo in seguito come estendere i nostri risultati dal caso esaminato ad altre situazioni interessanti, quale è ad esempio il collegamento radio ad onde corte via riflessione ionosferica.

Il guadagno direttivo di un’antenna
Prima di addentrarci nei meravigliosi misteri del “link budget”, varrà la pena di chiarirci le idee sulla definizione, spesso fraintesa, di guadagno d’antenna.
Cominciamo col dissipare un dubbio molto diffuso: il guadagno di un’antenna è qualcosa di fondamentalmente diverso dal guadagno di un amplificatore.
In un amplificatore (audio o RF che sia) si converte la potenza in continua fornita da un alimentatore in potenza del segnale d’uscita. Dovendosi come sempre rispettare la legge di conservazione dell’energia, questa conversione avviene con efficienza inferiore al 100 per cento.
In un’antenna, che è un componente notoriamente passivo, non si ha conversione di potenza in continua fornita da un alimentatore e sembrerebbe quindi che parlare di guadagno equivalga ad ammettere la creazione di potenza, negata dalle leggi della fisica.
In realtà il guadagno di un’antenna (meglio sarebbe parlare di “direttività” o di “guadagno direttivo”) non si riferisce ad alcun processo di conversione, ma piuttosto alla capacità dell’antenna di concentrare in una specifica direzione la potenza da essa irradiata.
Si introduce anzi il concetto di antenna isotropa (parolaccia quest’ultima derivante dal greco antico), cioè di un’antenna che irradia in modo uniforme in tutte le direzioni; il guadagno direttivo di un’antenna o guadagno rispetto all’isotropa, è quindi, come già spiegato, una misura della capacità dell’antenna di concentrare la potenza irradiata, riferita al caso ideale in cui l’antenna irradia uniformemente in tutte le direzioni.
Si è parlato di caso ideale perché in realtà l’antenna isotropa è un concetto essenzialmente matematico e nessuno l’ha mai né vista né realizzata.
Volendoci aiutare con un paragone, anche se un po’ forzato, potremmo immaginare l’antenna isotropa come una lampadina che, appesa ad un filo al centro di una stanza, illumina in modo uniforme tutte le pareti; l’antenna direttiva per contro è come una torcia elettrica che generi un pennello di luce ad alta intensità, in grado di illuminare aree piccole ma molto distanti.
Il guadagno direttivo di un’antenna viene espresso normalmente in dBi (dove la lettera “i” ricorda appunto il confronto rispetto all’antenna isotropa) ed è calcolato attraverso la formula seguente:

G = (4 pigreco Aequ.) / l^2

dove pigreco è il buon vecchio 3,14 di scolastica memoria, l (lambda) è la lunghezza d’onda del segnale radio e Aequ. è l’area equivalente dell’antenna (Nota Bene: per avere il guadagno in dBi bisogna fare il logaritmo in base 10 di G e moltiplicare per 10).
Il concetto di area equivalente di un’antenna non è di immediata comprensione, soprattutto se riferito ad antenne che non hanno un’area fisica propriamente definita (si pensi a tutte le antenne filari, ai dipoli o alle Yagi). Semplificando un poco le cose, si potrebbe dire che l’area equivalente di un’antenna è l’area fisica che dovrebbe avere un’antenna a riflettore per fornire un guadagno uguale a quello dell’antenna considerata.

L’attenuazione da spazio libero
L’aver introdotto la definizione di guadagno d’antenna rispetto all’isotropa ci permette di ricondurre il nostro problema iniziale ad una forma molto semplice da analizzare.
Per quanto detto finora, il nostro trasmettitore di potenza PT connesso all’antenna trasmittente di guadagno GT corrisponde ad un trasmettitore di potenza maggiore, pari a PT per GT, connesso questa volta ad un’antenna isotropa, cioè di guadagno unitario.
Sarà meglio fare un esempio pratico per non perdere il filo del discorso. Supponiamo che il trasmettitore fornisca 10 watt di potenza RF e l’antenna trasmittente guadagni 20 dB, cioè 100 volte; dal punto di vista del nostro ascoltatore all’altro capo del link, questa situazione è equivalente ad avere un trasmettitore da 10 x 100 = 1000 watt di potenza, connesso ad una ideale antenna isotropa. La figura 2 seguente ci aiuterà a chiarirci le idee.

Secondo la definizione di antenna isotropa (e nel rispetto del già citato principio di conservazione dell’energia) la potenza si distribuirà uniformemente sulla superficie di una sfera ed a distanza R dal trasmettitore la sua densità di flusso (in inglese “power flux density”) sarà pari a:

Densità di flusso di potenza = (PTGT)/( 4 pigreco R^2)

espressa in Watt per metro quadro, se la distanza R è espressa in metri.
Ricordiamoci ora che si voleva inizialmente calcolare la potenza PR catturata dall’antenna ricevente ed inviata all’ingresso del ricevitore. Questa potenza sarà uguale al prodotto dell’area equivalente dell’antenna ricevente per la densità di flusso di potenza, cioè:

PR = [(PTGT)Aequ.]/( 4 pigreco R^2)

Sostituendo ora in questa formula l’espressione dell’area equivalente, ricavata dalla formula del guadagno, si ottiene:

PR = [(PTGT)GR]/[( 4 pigreco R)/l]^2

Il denominatore dell’espressione viene comunemente chiamato “attenuazione da spazio libero” (in inglese: “free space loss”) e fornisce per l’appunto la perdita che il segnale radio subisce in conseguenza del fenomeno propagativo:

LFS = [( 4 pigreco R)/l]^2

L’attenuazione da spazio libero assume generalmente valori molto grandi (come avrete notato, infatti, essa dipende dal quadrato della distanza) ed è quindi più pratico esprimerla sotto forma di dB, secondo la formula pratica seguente:

LFS = 32,45 + 20 log F + 20 log R

dove F è la frequenza del segnale in MHz ed R è la distanza del collegamento in chilometri.
Per coloro che non avessero sotto mano una calcolatrice con funzioni logaritmiche, ho preparato una pratica tabella per le frequenze radioamatoriali dei 50, 144 e 432 MHz:

Supponiamo a questo punto di avere un trasmettitore da 1 watt funzionante nella banda dei due metri (144 MHz), connesso ad un’antenna direttiva con guadagno pari a 20 volte (cioè 13 dbi). A 50 chilometri da noi un amico OM è in ascolto sulla nostra frequenza con un ricevitore connesso ad una semplice antenna a dipolo (guadagno pari a circa 1,6 volte, cioè 2 dBi).
La potenza ricevuta, per quanto detto finora, sarà pari a:


0, 000 000 000 3 W cioè 0,3 nW (nanowatt).


Questo livello, apparentemente molto basso, corrisponde di fatto a circa 100 mV (microvolt) sull’impedenza d’ingresso di 50 ohm del ricevitore e porterà l’indice dello S-meter su una più che accettabile indicazione S-9.
I calcoli fatti sono in qualche modo ottimistici, in quanto non tengono conto di eventuali ostacoli fisici (edifici, alberi, rialzi del terreno), di fenomeni atmosferici (attenuazione da pioggia ed altro) e di altri fenomeni propagativi (ad esempio quello denominato “multipath”, legato alle riflessioni del segnale sugli ostacoli).

La propagazione ionosferica
A frequenze comprese fra i 3 ed i 25 Mhz e per distanze maggiori di circa 150 chilometri, il collegamento radioelettrico fra due stazioni dipende interamente dalla riflessione delle onde radio sulla ionosfera.
La ionosfera è una regione dell’atmosfera molto distante rispetto alla superficie terrestre, dove l’aria è sufficientemente rarefatta (principalmente a causa della luce ultravioletta) da riflettere o assorbire le onde radio, a seconda della densità di elettroni liberi in essa presenti (figura 3).
Bisogna a questo punto ricordare che un materiale conduttore (ad esempio un metallo) è tale proprio perché gli elettroni sono liberi di muoversi al suo interno e permettono perciò il passaggio di una corrente elettrica. E’ intuitivo pertanto immaginare uno strato atmosferico ricco di elettroni liberi come uno specchio metallico, in grado di riflettere le onde radio.Vengono individuati nella ionosfera vari strati (“layers”) situati a differenti altezze rispetto alla superficie terrestre ed attraverso i quali la ionizzazione generalmente aumenta con l’altezza. Vale la pena di passarli brevemente in esame.


Lo strato “D” (figura 4) si trova ad altezze comprese fra i 60 ed i 90 chilometri, esiste solo durante le ore diurne e la sua densità di ionizzazione dipende dall’altezza del sole sull’orizzonte. Questo strato riflette bene le onde lunghe e lunghissime, mentre assorbe le onde medie e tende ad attenuare le onde corte. Lo strato “D” ha un effetto complessivamente negativo sulla propagazione delle onde corte ed è il principale responsabile dell’impossibilità di utilizzare frequenze inferiori ai 7 MHz nelle ore diurne.
Ad un’altezza di circa 110 chilometri si trova invece lo strato “E”, molto importante per la propagazione diurna delle onde corte a distanze inferiori ai 1500 chilometri, nonché per la propagazione notturna delle onde medie.
Ad altezze comprese fra i 160 ed i 500 chilometri, si estende il cosiddetto strato “F”, che durante il giorno può dividersi nei due sottostrati F1 ed F2. Lo strato “F” è quello maggiormente utilizzato nelle comunicazioni a lunga distanza, mantenendo le sue proprietà riflettenti anche durante le ore notturne. A causa della bassissima densità dell’aria, infatti, gli elettroni liberi generati per ionizzazione durante le ore diurne si ricombinano molto lentamente e sopravvivono per qualche tempo anche dopo il tramonto del sole.

Abbiamo precedentemente paragonato gli strati della ionosfera ad uno specchio metallico perfettamente conduttore. In questo caso le onde radio incidenti seguirebbero le regole della riflessione ottica (angolo d’incidenza uguale all’angolo di riflessione) e non verrebbero minimamente attenuate. Nella realtà le onde radio che incidono obliquamente sulla ionosfera seguono un cammino incurvato (a causa della graduale riflessione attraverso i successivi strati) e vengono inoltre parzialmente attenuate (figura 5).

Una trattazione accurata dei vari fenomeni propagativi esula dallo scopo di questo articolo e risulterebbe a molti oltremodo noiosa. Il semplice modello dello specchio riflettente situato a varie altezze dal suolo ci permette tuttavia di applicare le semplici equazioni del “link budget “ radioelettrico, originariamente formulate per collegamenti in portata ottica, anche al caso di propagazione ionosferica.
Per semplicità considereremo solo il caso di propagazione con singola riflessione (“single hop”), pur sapendo che riflessioni multiple delle onde radio fra strati ionizzati e superficie terrestre sono possibili e frequenti.
Gli angoli di partenza (in inglese “take-off angle” o TOA) e di arrivo sono molto importanti nel progetto di antenne per comunicazioni ad onde corte. Essi dipendono dall’altezza virtuale dello strato ionosferico riflettente e dalla distanza fra le stazioni. Di fatto, la distanza massima raggiungibile con una singola riflessione ionosferica è limitata dall’orizzonte terrestre: l’angolo di partenza (misurato proprio rispetto all’orizzonte) diventa sempre più piccolo con l’aumentare della distanza e, corrispondentemente, il fascio dell’antenna rasenta sempre più l’orizzonte. E’ importante notare che idealmente il massimo di guadagno dell’antenna dovrebbe corrispondere al TOA: questo è il motivo per cui nei collegamenti DX si preferiscono antenne con il lobo di radiazione principale molto basso rispetto all’orizzonte. Un basso angolo di partenza permette di coprire la stessa distanza con un numero di riflessioni (salti) inferiore a quello che si avrebbe con un angolo di partenza più alto (figure 6 e 7).


Il calcolo delle caratteristiche geometriche di un collegamento radioelettrico per mezzo della propagazione ionosferica richiede l’utilizzo di formule piuttosto complesse.
Ho pensato quindi di sviluppare un piccolo programma in linguaggio Basic e calcolare i parametri d’interesse per varie altezze dello strato riflettente, corrispondenti approssimativamente agli strati E, F1 ed F2.
Nelle tabelle che seguono, la variabile D, espressa in chilometri, rappresenta la distanza terrestre fra le stazioni da collegare. H è per l’appunto l’altezza rispetto alla superficie terrestre (sempre in chilometri) dello strato riflettente considerato. L (in chilometri) e TOA (in gradi) corrispondono rispettivamente alla lunghezza complessiva del collegamento radio (singola riflessione) ed all’angolo di partenza dell’onda radio (uguale, in prima approssimazione, a quello di arrivo).



La lunghezza L è quella che deve essere considerata nell’eventuale calcolo della “perdita da spazio libero” (“free-space loss”), come definita .
Si noti come la distanza massima raggiungibile con un singolo salto varia a seconda dello strato ionosferico usato. Ad esempio, la massima distanza via strato E è di circa 2000 chilometri, mentre essa raggiunge i 4000 chilometri nel caso di strato F2.
E’ importante anche considerare che, a seconda della frequenza usata, non tutti i collegamenti saranno di fatto realizzabili. Se l’angolo di partenza (TOA) è infatti superiore ad un angolo limite, detto “angolo critico”, allora l’onda radio incidente non sarà riflessa dalla ionosfera e si perderà nello spazio. L’angolo critico è inversamente proporzionale alla frequenza, cioè diminuisce all’aumentare di questa.
Un’ultima considerazione: sembrerebbe dalle tabelle impossibile ottenere collegamenti ionosferici a distanze superiori ai 3000 chilometri. Ma attenzione: le tabelle si riferiscono al caso di singola riflessione. Nella realtà, il caso di riflessioni multiple fra ionosfera e suolo terrestre (essenzialmente conduttore) è frequentissimo e ad esso si devono i DX più interessanti. Il semplice modello proposto (e le tabelle ad esso relative) è tuttavia ancora applicabile, a patto di suddividere in più salti singoli la distanza totale da coprire.

giovedì 15 gennaio 2009

A proposito di Sputnik

Due belle foto (ho detto le foto!) del sottoscritto e dell'amico Francesco IK0WGF vicino ad una copia ufficiale del satellite Sputnik 1, in mostra al SatExpo 2008 di Roma.




domenica 11 gennaio 2009

Il fascino di un “collegamento”

(Ricevo e pubblico con molto piacere dal mio amico Rick Fleeter, K8VG)


di Rick Fleeter, K8VK

Che cosa è un “collegamento”? Un atto senza pensiero, senza sforzo, fra persone, animali, perfino fra un pianeta ed il suo sole.
Ma quando avevo 9 ani, comunicare non era per me una cosa così facile. Ai miei coetanei non piacevo molto. Loro mi consideravano troppo maturo, troppo serioso, forse anche troppo intelligente - in un’epoca in cui essere “secchione” non era proprio come essere un eroe popolare.
Con la mia nuova patente di radioamatore, WN8VGK, ed il codice Morse da 5 WPM (parole per minuto), cominciai ad avere “collegamenti”, senza quegli impedimenti che mi molestavano fuori del mondo della radio.
“Collegare”, comunicare, diventava una cosa facile, semplice, nel piano bi-dimensionale dei ‘dit’ e ‘dah’. C’era bisogno solo di “call sign”, RST, forse QTH e tipo di radio ed antenna, per sentirsi un campione nel comunicare.
E quando si voleva parlare di più, l’aspetto fisico e l’età anagrafica non contavano, non impedivano il collegamento.
Perfino l’ intelligenza, l’essere un po’ precoci, era una cosa positiva. Nel mondo dei radioamatori, chi sa di più viene ancora apprezzato.
Era un sabato di gennaio del 1964. Una serata fredda a Cleveland, nello stato dell’Ohio. La neve fuori della finestra della mia stanza copriva tutto, facendo sembrare il panorama un’arena fatta di pezzi di cromo nero sotto un cielo nuvoloso. Dentro la stanza, finii un QSO, in CW, sui 40 metri, che durava un’ora e mezza, forse anche di più. Mi resi conto dell’ora - le 23:15 – molto tardi per un ragazzo di 9 anni. Anche la stanza era quasi totalmente oscura, tranne la luce proveniente dalle valvole della mia radio - una 6146 ed alcune altre – che lavorava alla frequenza fissa dell’unico quarzo che avevo - 7167 kHz .
Con questa radio ed una semplice antenna filare, avevo parlato chiaramente con una persona, un amico nuovo, nello stato del Wyoming.
Qual era stata la cosa più importante? Che con una radio da 50 watt avessi coperto una così lunga distanza? O che avessi parlato tanto tempo e senza sforzo, senza l’ostacolo delle cose fisiche contro le quali non potevo far niente?
Ero stanco, ma ancor più felice di aver fatto questo collegamento senza le barriere che avevo di giorno nella scuola elementare. Questo, pensavo, è il vero collegamento fra esseri umani, fra amici.
Attraverso la radio, riuscii a superare i problemi che avevo con i miei coetanei.
Avevo la prima occasione di essere da solo e responsabile nel mondo tecnico, complesso e potente, degli adulti, di essere un buon cittadino nel popolo dei radioamatori.
Oggi, sebbene non abbia più i problemi di comunicazione che avevo nel 1963, ancora ricordo come mi sentivo a vivere così. E’ stata la radio che mi ha istradato lungo la carriera e la vita ricca di esperienze e di amici. Amici che condividono con me la passione per il collegamento, fra umani e fra noi e l’universo nel quale viviamo.
La radio, contrariamente ad Internet, ma come la scienza e la vita, ci collega spesso con sconosciuti in luoghi inaspettati. La radio ci insegna quindi a comunicare con persone mai incontrate prima, che appartengono a culture a volte a noi completamente estranee. Questo è il suo fascino, il suo potere e la sua magia.

mercoledì 7 gennaio 2009

Le intermodulazioni passive: temibili, ma poco conosciute

di Marco Lisi, IZ0FNO

Insieme alla crescita dei sistemi basati su comunicazioni “wireless” cresce anche l’esigenza di minimizzare l’interferenza fra canali e sistemi operati in parallelo.
Una parte significativa di questa interferenza è creata dal battimento di segnali a diverse frequenze in componenti con caratteristiche non lineari, che genera segnali non voluti denominati prodotti d’intermodulazione.
Fra questi prodotti d’intermodulazione ci sono anche le cosiddette intermodulazioni passive.
Le intermodulazioni passive (in inglese: Passive InterModulations, PIM) si generano quando due o più segnali sono contemporaneamente presenti in un dispositivo passivo (cavo coassiale, connettore, switch, etc.) che presenta un comportamento non lineare.
I prodotti d’intermodulazione passivi possono essere particolarmente dannosi in sistemi di comunicazione nei quali la differenza fra potenza trasmessa e potenza ricevuta è molto grande, come è tipicamente il caso nelle stazioni base della rete GSM ovvero a bordo dei satelliti. Anche nelle comunicazioni amatoriali, tuttavia, si presentano spesso situazioni di grave interferenza dovute a fenomeni più o meno complessi di intermodulazione in componenti passivi.
Le caratteristiche lineari sono un modello matematico più che una realtà fisica riscontrabile in pratica: qualunque dispositivo, attivo o passivo che sia, in determinate condizioni di lavoro (generalmente, oltre un certo livello di potenza RF) presenta caratteristiche non lineari, comportandosi cioè come un mixer a semiconduttori.
Un mixer lavora con almeno due segnali ai suoi ingressi: il segnale d’oscillatore locale (LO) e il segnale RF in ingresso. All’uscita del mixer si hanno tutte le armoniche dei due segnali nonché tutti i possibili prodotti di battimento, circostanza che possiamo matematicamente riassumere con la formula:

± j * fRF ± k * fLO

con j e k pari a 0,1, 2, 3, 4 ….. (quando l’indice di uno dei due segnali è uguale a zero, si ottengono le armoniche dell’altro segnale).
Il numero di segnali prodotti è virtualmente infinito, anche se alcuni sono troppo bassi per essere misurati ed altri sono molto lontani dalla banda IF e non sono quindi dannosi. I prodotti d’intermodulazione più dannosi sono quelli cosiddetti del terzo ordine (2 * fRF - fLO e 2 * fLO - fRF) perché cadono spesso in banda ed hanno un livello più alto (i livelli dei prodotti d’intermodulazione decrescono generalmente al crescere dell’ordine) (figure 1 e 2).


Figura 1: ordine dei prodotti d’intermodulazione

Figura 2: “l’albero di Natale” delle intermodulazioni prodotte da due portanti

I dispositivi a semiconduttore, come diodi e transistor, sono quelli che meglio si prestano alla realizzazione di circuiti nei quali il comportamento non lineare è voluto ed esaltato (mixer, moltiplicatori di frequenza, generatori di armoniche); da componenti passivi, quali cavi coassiali, filtri o antenne, non ci si aspetterebbe di avere problemi d’intermodulazione. Nella pratica, i prodotti d’intermodulazione passivi sono molto più deboli di quelli generati in un diodo semiconduttore, ma, proprio perché non previsti e provenienti da componenti a volte insospettabili, sono molto pericolosi.
Nei componenti passivi la non linearità può avere differenti cause: il contatto fra metalli diversi (coppia voltaica), la presenza di uno strato di ossidazione o semplicemente di sporcizia, la presenza di materiali magnetici. In genere, poi, tutti questi effetti sono esaltati da eventuali falsi contatti o da contatti in cui la pressione fra le superfici non è sufficientemente alta (ad esempio, nei connettori).
Non si deve pensare che le intermodulazioni passive siano un potenziale problema solo in sistemi multiportante e che quindi non interessino, per esempio, i radioamatori (i quali, tipicamente, trasmettono su portante singola). La situazione in figura 3 descrive il caso in cui due ricetrasmettitori distinti (per esempio, due radioamatori) si trovino in prossimità di una sorgente di intermodulazione passiva (nella figura, una giunzione fra metalli). I prodotti d’intermodulazione generati potranno disturbare il canale ricevente di uno o entrambi i ricetrasmettitori, ovvero un terzo ricevitore a frequenza completamente differente (ad esempio, il televisore di un vicino).

Figura 3: interferenza (RFI) generata da fenomeni d’intermodulazione passiva

Sorgenti tipiche di intermodulazioni passive

Come già detto, ogni deviazione dalla linearità in un circuito, cioè quando la tensione non è esattamente proporzionale alla corrente ovvero la potenza d’uscita non è esattamente proporzionale a quella d’ingresso, provocherà la generazione di intermodulazioni. Nei circuiti passivi, tra le possibili cause di non linearità e conseguente intermodulazione le due cause più comuni sono i contatti imperfetti alla giunzione fra conduttori e la presenza di materiali ferromagnetici.
La catena trasmissiva all’uscita del trasmettitore può essere costituita da vari componenti in cascata, come cavi coassiali, connettori, filtri nonché l’antenna stessa. Ogni componente può essere a sua volta composto di vari elementi, per cui è molto elevato il numero di giunzioni metalliche attraversate dal segnale RF.
Le parti metalliche sono generalmente ricoperte da un seppur sottile (meno un millesimo di millimetro) strato superficiale di ossido, che agisce spesso come un isolante. Gli elettroni, accelerati dal campo a radiofrequenza, riescono tuttavia a superare questo microscopico strato isolante, secondo un fenomeno fisico noto come effetto “tunnel”. Peccato però che l’effetto “tunnel” sia un processo non lineare (non a caso esiste un diodo chiamato “tunnel”) e che quindi ad esso si associ la generazione di intermodulazioni. E’ il fenomeno noto come “rusty-bolt effect”, cioè “effetto del bullone arrugginito”.
Il problema è accentuato dal fatto che a livello microscopico il contatto fra due superfici metalliche non è continuo, ma piuttosto concentrato su un numero limitato di punti di contatto, attraverso i quali scorrono correnti molto elevate, con associati fenomeni di scarica “a valanga” (figura 4).


Figura 4: giunzione metallo-metallo


L’altra causa tipica di intermodulazioni passive è la presenza di materiali ferromagnetici, quali il ferro, l’acciaio, il cobalto o il nichel. In questo caso la non linearità deriva dall’isteresi magnetica che caratterizza questi materiali. In altre parole, questi materiali, se sottoposti a campi magnetici abbastanza alti, “saturano” e mantengono il loro stato di saturazione anche rimuovendo in parte il campo magnetico esterno. Presentano, per così dire, un effetto di “memoria”. Questo comportamento è tutto meno che lineare e genera quindi, come abbiamo ormai ben capito, prodotti di intermodulazione.


Figura 5: “loop” d’isteresi di un materiale ferromagnetico
(H è il campo magnetico esterno applicato, B è l’induzione magnetica)
Come prevenire le intermodulazioni passive?

Compreso il fenomeno ed identificate le sue possibili cause, la prevenzione o soluzione del problema, sebbene a volte molto laboriosa, è a portata di mano.
Le intermodulazioni generate da contatti cattivi, ossidati o sporchi possono essere ridotte curando la pulizia dei contatti stessi, assicurando che le eventuali argentature o dorature siano di spessore appropriato (per ridurre l’effetto “tunnel”) e soprattutto aumentando la pressione di contatto fra i due materiali (ad esempio, stringendo bene eventuali viti o bulloni). Dove possibile una buona saldatura è comunque preferibile ad un contatto meccanico.
Nella scelta dei cavi coassiali si devono preferire ove possibile quelli professionali, costituiti da un singolo conduttore interno e da un singolo conduttore esterno. Le eventuali calze metalliche dovranno almeno essere di ottima qualità e dotate di adeguata argentatura. Nell’intestare i cavi, sarà poi preferibile saldare i connettori piuttosto che “crimparli”.
Abbiamo infine già discusso la necessità di evitare materiali ferromagnetici, quali ferro, acciaio inox, cobalto e nichel. Al loro posto si preferiranno materiali quali il rame, l’argento, l’oro, l’ottone, il rame al berillio ed il bronzo fosforoso.

martedì 6 gennaio 2009

Un mio racconto di fantascienza (breve ed unico, per vostra fortuna!)

TI CHIEDO

racconto di fantascienza di Marco Lisi


“(…) Ho accresciuto milioni di volte la vista che mi desti, e l’udito che mi desti, milioni di volte; (…)”

Penetrare attraverso la membrana cellulare era stato semplice, un gioco da ragazzi. Adesso si muoveva con cautela nel citoplasma, immenso oceano liquido, denso e lattiginoso, popolato di sparsi continenti. Raggiunse il più grande di essi e si fermò ad esaminarlo con cura. Il nucleo del neurone appariva integro e perfettamente funzionante. Penetrò al suo interno e con uno sforzo di concentrazione si mise a controllare l’interminabile doppia spirale del DNA, in tutta la sua maestosa, policroma bellezza. Rassicurato, uscì dal nucleo e si diresse senza ulteriori indugi verso il lato opposto della cellula neuronale, lì dove avrebbe trovato la sinapsi difettosa.
Sapeva adesso che non si trattava di un problema genetico: gli restava ormai solo da districarsi nel labirinto del dendrite, individuare la sinapsi avariata e completare la riparazione.
Come il delta di un grande fiume, il dendrite si ramificava in centinaia di rami secondari ed ognuno di essi in decine di altri ancora. Gli venne in mente, per analogia, l’albero genealogico di una grande famiglia regnante dei tempi antichi, della quale non ricordava più nemmeno il nome.
Scelse con sicurezza la via da prendere ad ogni diramazione e giunse velocemente al suo obiettivo. Come aveva previsto, la causa di tutto doveva essere stato un trauma meccanico: la parete mielinica in prossimità della sinapsi appariva danneggiata in più punti, attraverso i quali, come da un tubo che perde, il potenziale elettrochimico si disperdeva in mille rivoli e non riusciva a raggiungere il livello necessario ad eccitare la connessione sinaptica con i neuroni circostanti.
Uno stupido, insignificante problema idraulico che avrebbe però potuto causare la morte di un essere umano, si fermò a pensare.
Sentì avvicinarsi in un crescendo di sensazioni il momento cruciale; inebriato della sua onnipotenza, espanse i suoi sensi, concentrò la sua volontà ed in un unico, irripetibile istante scaricò tutti i suoi poteri, come in un orgasmo.
Rimase per un po’ (secondi, millisecondi ?) ad osservare come istupidito il risultato del suo intervento, poi si riscosse e, perfettamente all’erta, si concentrò sui termini della successiva missione.

“(…) ho valicato lo spazio con la parola,
e preso dall’aria il fuoco per farne luce. (…)”

Con la velocità del pensiero si allontanò dalla sinapsi, dal neurone, da quel cervello ormai perfettamente funzionante, e si diresse vertiginosamente verso l’orbita di Saturno, dove una cometa di medie dimensioni sembrava aver perso la sua strada e rischiava di entrare in rotta di collisione con una delle stazioni spaziali di rifornimento sparse sul piano dell’eclittica ed esterne alla fascia degli asteroidi.
Con una piccola operazione di chirurgia interplanetaria, avrebbe potuto deviare la rotta della cometa e portarla in rotta di collisione con il Sole dove, in un grande sbuffo di vapore, avrebbe finito di creare problemi.
L’annuncio gli risuonò nella mente, mentre era ancora perso nelle sue riflessioni: “Attenzione, cinque minuti alla fine del secondo turno. Tutti gli operatori sono pregati di iniziare le operazioni di log-out”.
Mario Rossi, programmatore di quarta classe di una delle più grandi multinazionali informatiche del mondo (familiarmente e per antonomasia definita “The Corporation”), terminò a malincuore la procedura di disconnessione, si liberò con un gesto oramai familiare del connettore cerebrale posto alla base della sua nuca ed uscì dall’imbracatura che gli permetteva di espletare tutte le sue funzioni biologiche durante il turno di lavoro (il tempo macchina era prezioso e non poteva essere sprecato!).
Con indosso la sua tuta marrone, che designava la sua appartenenza alla quarta classe dell’OdP (Ordine dei Programmatori), si diresse verso l’uscita, ancora perso negli scenari di’incomparabile maestà e bellezza attraverso i quali aveva appena “navigato”. Intorno a lui, programmatori di varie classi si muovevano con la stessa aria assorta e vagamente depressa.
Giunto alla locale stazione sotterranea della metropolitana, salì insieme ad altri sulla vettura a levitazione magnetica che lo avrebbe portato a destinazione in pochi minuti.
Vicino a lui, due programmatori di prima classe, nelle loro immacolate tute bianche, parlottavano amichevolmente tra loro, degnandolo di tanto in tanto di uno sguardo sufficiente ed altezzoso.
Non dovevano navigare nella realtà virtuale, loro. In quanto appartenenti alla prima classe, si dovevano dedicare solo all’amministrazione statale: niente “viaggi” in scenari fantastici e mozzafiato, solo interminabili liste di dati statistici, conti economici, bilanci.
Come spesso negli ultimi tempi, lo prese un senso inesprimibile d’insoddisfazione, di depressione, di vuoto esistenziale.
Seguendo chissà quale associazione di pensieri, gli vennero alla mente i versi di una vecchia poesia, trovata per caso in un sito sulla letteratura americana arcaica del ventesimo secolo. L’autore, se ben ricordava, un certo Edgar Lee Masters:

“(…) e ti chiedo:
ti piacerebbe creare un sole
e l’indomani avere i vermi
che ti brulicano in mezzo alle dita?”